venerdì 14 aprile 2017

In My Veins


Everything will change
Nothing stays the same
Nobody here's perfect
Oh, but everyone's to blame

Dorme un sonno denso, pieno di immagini che si susseguono in stralci di sogni logoranti: il sibilo delle bombe che si schiantano a terra sollevando onde di sabbia bollente, la voce di Charlotte che gli si pianta nel cervello con la stessa violenza delle unghie di una belva conficcate nella carne, il pianto di Blue e quello di Lavinia, i singhiozzi di sua madre, il tedesco carico di disprezzo di Hans, il viso di Austin, gli occhi di Ezra e una cascata di sangue che ricopre ogni cosa facendogli mancare il respiro.
Noah spalanca gli occhi nella penombra del loft e annaspa, spalancando la bocca nel tentativo di incastrarsi nei polmoni l'ossigeno necessario a non soffocare; non sa se siano gli incubi o le ustioni ad avergli ricoperto il corpo di una patina di sudore gelido, né sa quanto tempo sia passato da quando è tornato a casa ed ha schiacciato il viso contro i cuscini del divano. Si tira in piedi a fatica, le membra affaticate e il corpo arso da una febbre che gli regala brividi gelidi e prosciuga la gola. Dovrebbe bere, ma non ha la forza di alzarsi in piedi ed è probabile che finirebbe per vomitarsi addosso come un povero stronzo.

« Austin? »

Il nome del pirocineta lo ripete più volte, in un crescendo privo di risposte che lo lascia sfinito quanto confuso. L'unico a presentarsi al suo fianco è Dougal, gli occhi imbevuti della stessa malinconia che avvolge Noah come le spire di una serpe. Al pitbull riserva un paio di carezze deboli, e un interrogativo che pronuncia in un tedesco fradicio di afflizione.

« Te lo sei mangiato? »

Dougal muove la coda e non dice nulla, e lui ha bisogno di tutte le forze che gli sono rimaste per tirarsi in piedi e sconfiggere la vertigine che gli scivola tra le tempie e rischia di rendere il pavimento troppo vicino. Incespica, tenendo a stendo a bada la nausea che gli rovescia le viscere mentre si domanda se la cucina è sempre stata così lontana. Raggiungere il frigo è un'impresa titanica che lo lascia ansante, facendogli supporre una quantità di complicanze cliniche che scaccia strizzandole tra le ciglia bionde: sull'anta dell'elettrodomestico, schiacciato tra un disegno di Blue e uno di Austin, un post it di un giallo abbacinante fa bella mostra di sé.

“È venuta Charlotte. Oggi dormo da Effie. Vai in Ospedale.”

È venuta Charlotte.
Merda. Merda. Merda.
Mormora un ringraziamento a qualche santo quando realizza di avere il cellulare in tasca, afferrandolo tra le dita mentre una leccata nervosismo ne torce la carne e si pianta come una lama bollente tra le sue tempie. Lascia partire la chiamata mentre recupera una bottiglia d'acqua, incastrandosi il telefono tra spalla e l'incavo del collo: è un movimento che gli inietta nelle narici l'odore dolciastro della carne corrotta, ricordandogli che dovrebbe decidersi a trascinarsi in bagno a controllare i danni.
La voce di Charlotte è dolce come melassa, e gli si incastra tra le orecchie nel miagolo sorpreso con cui accetta la chiamata.

« Mh? Ti sei già rimesso in piedi, coglione? »
« Che cazzo gli hai detto? »
«  A chi? »
« Non fare la troia, so che sei passata. »
« Ah, il tuo ragazzino. Sono passata a controllare fossi ancora vivo e portarti qualcosa da mangiare. »
« E? »
« E, cosa. »
« Cosa cazzo gli hai detto, Charlotte. »
« Cos'è, ti ha svegliato frignando? »
« Rispondimi. »
« Dio, che palle. Niente, abbiamo chiacchierato, poi ha visto il tatuaggio ed è andato fuori di testa. »
« Il tatuaggio? »
« Il mio, dai. »
« Puttanate. Che gli hai detto? »
« Niente, sei tu che ti scopi un fottuto malato di mente. È impazzito, gli ho risposto, mi ha cacciato. »
« Non ti sei mai fatta cacciare. »
« Ho lasciato stare. Per una volta che dormivi, non volevo svegliarti. »
« Stronzate. »
« Come ti pare. Se hai finito con il terzo grado avrei .. - »

Noah non le dà il tempo di finire la frase. Si strappa il telefono dall'orecchio e chiude la telefonata con una bestemmia incagliata tra i denti. Accanto a lui, il metallo dell'isola della cucina trema e si increspa come se un'onda lo attraversasse, accartocciandosi in una forma ritorta e grottesca. Noah scarta di lato per svuotarsi lo stomaco nel lavandino della cucina con un conato bollente.
I succhi gastrici gli ustionano la gola e fanno lacrimare gli occhi, gettandolo in uno stordimento in cui coglie a malapena il trillo del cellulare che lo avvisa di un nuovo sms.

Oh, all that you rely on
And all that you can save
Will leave you in the morning
And find you in the day

Le ore con Ernst al White Rabbit, la telefonata con Austin, la voce di sua madre, la risata di Lavinia che lo supplicava di guardare di nuovo quello stupido film da ragazzine, i brontolii di Paul che non è mai riuscito davvero a farsi andare a genio e che solo ora, dopo quasi vent'anni, ha imparato a rispettare come uomo. Ernst gli ha allungato un paio di pasticche di vicodin con cui ha seppellito il fastidio che gli brucia la carne in un'onda di sollievo chimico. Ha voglia d'erba e l'ultima volta che ha fumato è stato cinque anni o sei anni fa: Ezra era ancora con lui e Charlotte era incinta, un erinni ormonale che gli rendeva la vita impossibile e logorava i nervi.
Trascinarsi sul soppalco lo svuota delle ultime energie e solo una volta sdraiato su delle coperte improbabili che non ha scelto lui, trova la forza di comporre il messaggio che gli rimbalza tra le tempie da tutto il giorno.

- Sei davvero incinta? - 
- Ho un ritardo. -

La risposta è quasi immediata e gli ruba di bocca una risata isterica, nauseata, che inghiotte assieme ad una sensazione di desolazione bruciante.

- Il ritardo lo hai in testa. -
- Non sto scherzando. -
- Non me ne frega un cazzo, Charlotte. Non sei più un problema mio. -
- Volevo parlartene di persona. -
- Volevi solo massacrarlo, pisciare sull'albero e fottergli il cervello. Vai a farti le analisi e mandami i risultati. - 
- Non mi accompagni? -
- No. -

Il cellulare di Noah continua ad illuminarsi e Charlotte accampa giustificazioni, scuse e suppliche che lui rifugge, offrendole in cambio solo il silenzio secco della sua ostinazione e una totale mancanza di risposte. Le preferisce un'altra chat, rincorrendo una manciata di lettere in un messaggio che scrive e cancella troppe volte prima di rinunciare, gettando il telefono tra la stoffa rosa delle coperte: la sagoma del vestito da principessa dipinta sul cotone gli scortica lo stomaco, sprofondandolo in un'irrequietezza di cui tenta di liberarsi cercando il profilo di Ezra, lungo la parete, con una malinconia che non trova requie. 
Stringe gli occhi e scambia il profilo del moro con quello altrettanto familiare di Austin, recuperando dal libro di fisiologia abbandonato sul comodino una polaroid rettangolare, indubbiamente recente, che divora con lo sguardo sfinito delle bestie sconfitte.  
È il campanello a salvarlo, trascinandolo fuori da quel pantano emotivo per farlo strisciare nuovamente giù per le scale e verso la porta.

« Arrivo, arrivo. Merda. »

Oh, you run away
'Cause I am not what you found
Oh, you're in my veins
And I cannot get you out