domenica 2 aprile 2017

Hesitate

I touched your face, I held you close
Til' I could barely breathe
Why give me hope, then give me up


Tra le cosce di Charlotte ci è naufragato con la disperazione di un uomo sconfitto, le palpebre serrate e in petto la desolazione pulsante di un buco nero.
Svegliarsi è come riemergere da un acquitrinio paludoso, la testa in fiamme e il ventre ancora umido delle tracce del proprio orgasmo; Noah si ripulisce la pelle con una passata molle del palmo, cercando dietro le ciglia bionde la voglia di strisciare fuori dalle lenzuola aggrovigliate e buttarsi sotto la doccia.
Charlotte gli dorme accanto, e il peso della sua testa contro la spalla è più nauseante del sapore acre che gli impasta la bocca e allappa la lingua; allunga le dita e la scosta con uno strattone brusco, liberandosene mentre spinge i piedi nudi contro il pavimento e lotta contro il fiotto di bile acida che gli risale la gola e esplode contro il palato.
Ha bevuto troppo, e trovare scampoli di ricordi sensati nel pantano che è la sua testa è uno sforzo che gli strappa un gemito di dolore e i trascina i palmi contro le tempie. Noah si tende in avanti come se dovesse vomitare, ma ha lo stomaco vuoto e il fiotto che gli scavalca le labbra e si mescola ai suoi vestiti sparpagliati sul pavimento non è altro che una colata di succhi gastrici.

« Almeno vomita al cesso, coglione. »

La voce di Charlotte è un miagolio impastato, debole e grondante di una soddisfazione che basta a rivoltargli definitivamente le viscere. Noah si alza in piedi e barcolla verso il bagno incespicando tra i vestiti di lei e un giocattolo di Blue, una papera di gomma che sotto la pianta del suo piede rilascia un lamento assordante, tagliente come la lama che gli si è conficcata nel costato la sera precedente.
Chiude la ceramica del lavandino tra i palmi e il riflesso che gli offre lo specchio è poco più che un'ombra consumata dall'insonnia: ha cerchi neri attorno agli occhi e una scorza di barba biondiccia che non regola da troppi giorni. Se Charlotte ha un pregio, è quello di aprirgli le gambe in qualunque condizione sia. Si bagna il viso con l'acqua ghiacciata mentre cerca di togliersi di dosso la consapevolezza che, in realtà, quella donna è talmente stronza che scoparlo con il cuore in pezzi è una delle cose che preferisce.
Il ricordo delle sue dita attorno ai fianchi stretti di Charlotte gli frusta i neuroni come uno schiaffo infuocato e gli contrae gli addominali ancora umidi: le ha inchiodato la testa tra le scapole, curvo e dimesso come un uomo in preghiera, mormorandole parole che ringraziando il cielo l'alcool ha cancellato quasi del tutto; qualcosa su Austin, o forse Ezra.
Quando emerge da dietro un asciugamano di spugna dall'odore troppo dolce, Charlotte è lì, nuda e assonnata. Lo osserva con una spalla premuta contro il battente della porta, tra le dita una polaroid che deve aver recuperato dal suo portafogli; Noah non ha neanche la forza di incazzarsi, rigido e sfinito come una statua logorata dal tempo e ormai prossima al collasso. La bionda sorride e si rigira la fotografia tra le dita con le labbra strette in un broncio dubbioso e gli occhi chiari che scavano i lineamenti di Austin con un fastidio tenue, troppo leggero per poter esser scambiato per gelosia.

« Biondo, mh? Pensavo fosse un'altra copia carbone come l'ultimo. »
« No, stavolta no. »
« Dovresti smetterla di farti spezzare il cuore dai ragazzini, ritardato. »

C'è una soddisfazione crudele a sporcare la risata con cui Charlotte si toglie di bocca quelle parole, e il gesto con cui lascia cadere la fotografia in terra e la calpesta è saturo di un disprezzo che Noah incassa con solo un cenno d'assenso. Accoglie le braccia della donna attorno al torace con un irrigidimento che ha il sapore debole del disgusto, ma senza trovare in sé la forza per allontanarla.

« Cos'ha fatto questo? Ti ha raccontato palle e ti ha scatenato il ptsd o ti ha mollato e basta per correre dietro a qualcuno di meno complicato? »
« 'Char... »

C'è una supplica accorata a sporcare il tono di Noah. Una supplica che Charlotte divora, fagocitandola assieme a tutto il resto mentre gli spinge la bocca addosso, percorrendone la curva delle clavicole con una passata bollente di lingua, labbra e denti.

« Che c'è? »
« Ritira gli artigli, non c'è più bisogno. »
« Cos'è, ti sei preso una cotta per il ragazzino e ti rode se ne parlo male? »
« Char, Cristo santo. »
« Uh - uh. Non è una cotta, vero sweety? »

Lo spintone con cui Noah l'allontana è troppo violento, e Charlotte non è mai stata capace di incassare decentemente: non lo è neanche ora, mentre incespica all'indietro e si ritrova a sbattere la testa contro l'architrave della porta. Il sangue schizza a imbrattarne i capelli con uno zampillio vischioso e la bestemmia che le scavalca le labbra è aspra, brutale come il livore che le riempie lo sguardo e scioglie sulla lingua una cattiveria dopo l'altra, liquide e aspre come cucchiaiate di cicuta.

« Non c'è nulla di più ridicolo di un uomo innamorato di un adolescente, Noah. E mentre ti svuotavi le palle nel culo del moccioso a Ezra hai mai pensato? Perché che di me non te ne freghi più un cazzo è palese, ma pensavo che almeno lui qualcosa ancora la contasse. »
« Stai zitta. »
« L'unico grande amore, quello per cui ti saresti buttato nel fuoco, che passa in secondo piano davanti alle chiappe di un moccioso di neanche vent'anni. Che ne penserebbe, mh? Pensi che ti farebbe un applauso? »

Noah incassa ogni bastonata con il cuore che gli affonda nel petto, liquefatto in una pozza di senso di colpa e nostalgia straziante che gli rende difficile persino respirare. Gli bruciano gli occhi come se gli ci avessero gettato contro la soda caustica, eppure non c'è una singola lacrima ad impigliarglisi tra le ciglia biondicce. Gli uomini non piangono, e io non ti ho cresciuto come una femminuccia di merda. Sei un finocchio? Vuoi andare a piangere dietro la gonna di tua madre? Devo comprarne una anchea te e chiamarti Susy? La voce di Hans gli riecheggia nel cranio come ogni volta, lasciando dietro di sé l'insoddisfazione bruciante di chi si vede negato anche quell'unico sfogo. Serra i pugni in una frustata di tensione febbrile, e lo schianto delle nocche contro lo smalto sbeccato del lavandino gli esplode in testa al pari dell'ondata di dolore asfissiante che gli risale l'avambraccio.
Lo scricchiolio delle ossa che si spezzano non è nulla di nuovo, così come non lo è il malessere che gli chiude la bocca dello stomaco e pulsa tra le tempie.

« La prossima volta che dici una cosa del genere, la mano me la spezzo sui tuoi denti. »

È una promessa ringhiata quanto vuota quella che scavalca le labbra di Noah, ripetuta troppe volte per risultare poco più che il latrato di una bestia ferita a morte; scivola accanto a Charlotte e raccoglie i propri vestiti dal pavimento senza neanche infilarseli, guadagnando il pianerottolo nudo, infreddolito e con una nuova ondata di conati di vomito a strizzargli l'esofago. 

You were my fire, so I burned, now there's nothing left of me.

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È il fiato fetido di Dougall a fargli aprire gli occhi. Noah bestemmia e distanzia il pittbull con una manata secca, grugnendo di insoddisfazione nello spintonarlo giù dalle lenzuola.
Ha la testa pesante e la sgradevole sensazione che una colonia d'api abbia fatto il nido nel suo cervello; i sonniferi lo distruggono e lo lasciano disorientato, con la bocca piena di sapore chimico che gli si spande sul palato e cola giù, fino allo stomaco annodato dal risentimento.
Mick e Ben gli stanno sul cazzo. Austin gli sta atrocemente sul cazzo e vorrebbe buttarlo sotto una macchina. Charlotte ha superato i livelli di guardia e ormai vorrebbe vederla conficcata su una picca.
Il pensiero della bionda gli torce le viscere e spezza il respiro: spinge la mano destra contro la fronte e schiaccia il viso contro il cuscino, in un pallido tentativo di soffocamento che interrompe nel realizzare l'assenza di dolore alle falangi. Noah solleva la mano destra e la fissa, spalancando le dita per osservare la carne liscia delle nocche, pulita e priva della benché minima traccia di ecchimosi: è quell'assenza a togliergli dal petto il peso vischioso della colpa, svuotandone il torace con un sospiro sfinito:

« Fick dich, Weimar »