giovedì 30 marzo 2017

Helium

I never wanted to need someone
Yeah, I wanted to play tough
Thought I could do all just on my own

È un ambulatorio pubblico infilato in una delle vie fatiscenti della South quello in cui lavora Noah, strozzato tra una lavanderia a gettoni e un take away cinese. I corridoi sono saturi dell'odore stantio del disinfettante e della calca umana che, giornalmente, si assiepa sulle seggiole di plastica sbeccata in attesa del proprio turno.
Noah spalanca la porta dell'ambulatorio e si affaccia sulla sala d'attesa gremita; un uomo di quarant'anni con tra le dita scritta una prescrizione gli scivola accanto, chiudendo un colpo di tosse nel palmo, e una donna dall'aria patita si alza in piedi trascinando per mano un ragazzino di non più di dieci o dodici anni.

« Cos'ha fatto stavolta? »

Noah ha l'aria stravolta di chi non ha dormito abbastanza e gli occhi iniettati di sangue, ma riesce comunque a ritagliarsi in bocca un mezzo sorriso per quell'ammasso d'ossa e lividi dall'aria rognosa, ossuto e teso come una corda di violino. Fa cenno ad entrambi di accomodarsi, impastandosi in bocca una mezza bestemmia quando il cellulare inizia a squillare nella tasca del camice. Mastica un paio di scuse e butta uno sguardo al display dell'apparecchio, corrugando la fronte in una leccata di scetticismo pulsante.

« Cinque minuti e sono da voi. »

Scivola in corriodio prima di schiacciarsi il telefono contro l'orecchio, incurante del chiacchiericcio che riempie la sala d'attesa. La pazienza gli scivola tra le dita, intrappolata in quel bolo di fiato che si sforza di rendere comprensibile.

« Che c'è? »
« Austin è stato attaccato fuori casa da dei bastardi che lo hanno seguito fino all'appartamento, ieri notte. E' vivo, ma per un pelo. Ho pensato che fosse giusto che tu lo sapessi. »

La voce dell'altro capo del telefono è quella di Ross. Bassa, seria, un mormorio che gli si infila nel costato con la violenza di una spada incandescente. Non è dolore e non è panico quello che gli esplode al centro del petto con la forza di un'esplosione, ma un buco nero che risucchia ogni cosa, divorandone il cranio, i pensieri e il cuore come una leccata di veleno. Annaspa e il respiro che si incastra nei polmoni è affaticato, frenetico come i passi che divora in direzione dello stanzino. Si richiude la porta alle spalle con uno schianto di metallo e legno, tagliando fuori il chiacchiericcio del corridoio, i pazienti, persino il lavoro. 

« Lo porto a casa appena si sveglia dall'anestesia. Ti mando un messaggio con l'indirizzo della casa nuova. Sono sicuro che gli farebbe piacere se passassi. »

Il resto delle frasi che pronuncia sono ringhi da cane rabbioso, affogati in un livore che gli esplode tra le dita non appena mette fine a quella telefonata. Insiste, minaccia, le scapole inchiodate contro la porta alle prorpie spalle e gli occhi persi sullo schedario che ha davanti a sé. Lo scheletro di metallo si accartoccia su se stesso in un cigolio straziante, ripiegandosi quasi fosse costretto sotto una pressa idraulica. Il cuore gli pulsa nel costato con troppa forza, accanendosi contro la trappola di muscoli e ossa quasi volesse squarciarne la carne e balzargli fuori dal petto.

« Ho la pelle dura. Sto attento. I promise. »
« Che cazzo pensi, che sia tanto stronzo da farmi ammazzare? Stai diventando una fighetta, Noah. »

Il ricordo che gli attraversa il cranio è lancinante come lo scricchiolio di ossa spezzate, doloroso al punto da rubargli il fiato. Cede, con i muscoli che diventano acqua mentre scivola contro il pavimento, gli occhi asciutti e le dita ancora strette attorno alla scocca di plastica del telefono cellulare. Noah sospira e flette il collo verso l'alto, riesumando il pacchetto di sigarette dalla tasca con un movimento indolente, vinto, lo stesso con cui si incastra una paglia tra le labbra e prende a sfogliare la rubrica del telefono.

But when the fear comes and I drift towards the ground
I am lucky that you're around

mercoledì 29 marzo 2017

Through the glass

Philadelphia, Febbraio 2025

I'm looking at you through the glass
Don't know how much time has passed
Oh, god it feels like forever


Il soggiorno di quella casa è uno spazio che Noah conosce a memoria: lui e Charlotte hanno litigato per la disposizione di ogni mobile, per ognuna di quelle fotografie che, dopo anni, sono ancora appese alle pareti come ombre slavate di un rapporto fatto a pezzi dal tempo.
Charlotte non ha più di vent'anni nell'immagine che Noah divora con lo sguardo, il sorriso scosceso di una ragazzina e le braccia magre strette attorno al collo di Ezra che ride come un coglione, il braccio teso a catturare un selfie sbilenco; c'è anche lui, ma il suo viso è poco più che uno scorcio di cui si intravede l'espressione tesa. Ha i lineamenti coperti dal medio della mano destra, e il fastidio a stagnargli nel fondo degli occhi chiari.
Quanti anni aveva? ventiquattro, forse ventitrè. Ricorda distintamente che era seccato per qualcosa successo in quel pomeriggio, ma non riesce a ricordare cosa fosse; forse una battuta di Ezra, o uno dei primi battibecchi con 'Char. 

« Ci credi sul serio a questa stronzata? »

La voce di Charlotte lo riscuote, costringendolo a sollevare il viso verso di lei.
Ha un mezzo sorriso da canaglia inchiodato alle labbra e un desiderio stagnante a lordarle lo sguardo. Noah deglutisce un bolo di saliva vischiosa e inietta le dita tra i capelli biondi di Blue; le note di 'Let it go' riempiono l'aria, e sullo schermo piatto della tv Elsa si agita tra vortici di neve urlando la propria indipendenza.

« Mh? »
« La fine del mondo, ritardato. Si parla solo di quello, il varco dimensionale, i doppi e il resto. »

Noah non risponde e si limita a scrollare le spalle. Ha sviluppato, negli anni, l'innata capacità di capire quando Charlotte vuole trascinarlo in un pantano vischioso. È un sesto senso, un dolore sordo che gli si allaccia attorno alla bocca dello stomaco e gli tende i muscoli dell'addome in un allarme diffuso, concreto e allo stesso tempo impalpabile.

« Pensi che nell'altra dimensione le cose tra noi abbiano funzionato? »
« No. Credo che tu sia una troia in tutte le dimensioni. »

Charlotte ride e si allunga verso la figlia, stampando sulla fronte di Blue un bacio leggero e una manciata di parole che Noah non riesce a capire. Le guarda allontanarsi verso la camera da letto della bambina senza trovare la voglia di alzarsi in piedi e andarsene. Aspetta e lo fa con nel petto una sensazione di fallimento soffocante, fedele e stupido come un cane che aspetta il ritorno a casa del proprio padrone.
Non ha bisogno di troppa immaginazione per sapere come andrà a finire, e quando Charlotte torna in salotto e gli si arrampica sulle gambe non c'è un oncia di sorpresa a sporcargli lo sguardo.
La lascia fare senza collaborare, offrendole la curva della propria mandibola per una cascata di baci voraci. L'odore della pelle di Charlotte si mescola a quello dolciastro della Vaniglia, scaricandogli nel bassoventre una fitta di desiderio bruciante, soffocato a stento dalla stoffa dei jeans che ne intrappolano l'erezione.

« La fine del mondo voglio passarla con te. »

Scivolare tra le cosce di Charlotte è dolce come un vertigine, e il cuore di Noah rischia di scioglierglisi nel petto mentre la trascina sul pavimento. L'amplesso che li consuma è affamato, scavato da una patina di malinconia assordante che sporca ogni bacio, ogni morso che si tatuano addosso in un groviglio di ansiti fradici.
L'orgasmo con cui imbratta il ventre di Charlotte lo fa ritrarre di colpo, senza che la scarica di endorfine che gli annacqua il cervello riesca a frenare la desolazione nauseante, avida, che asfalta ogni cosa e ne divora i pensieri.

« Mi scopi e te ne vai? »

Il risentimento confuso che riempie il tono di Charlotte lo fa ridere, strappandogli un grumo di fiato amareggiato che gli fende le labbra e scuote le spalle.

« Tu lo fai da anni, e adesso mi rompi i coglioni? »
« Prima era diverso. Io avevo Lukas, tu l'esercito. »
« No, non è cambiato niente: tu sei rimasta la solita troia, e io lo stronzo che non ne può più di queste puttanate. »
« Cristo santo, Noah! Non possiamo semplicemente --  »
« Se non fossi la madre di Blue, 'Char, non ti userei neanche per svuotarmi le palle. »

Noah si toglie quella menzogna di bocca con un sorriso affilato, urticante come fuoco liquido. Lo strazio che esplode nel petto di Charlotte e ne dilania l'espressione lo inghiotte con l'avidità di chi ormai non ha più nulla da perdere; ne rifugge le lacrime con una torsione vigliacca delle spalle, avviandosi alla porta mentre i singhiozzi della donna si mescolano alle battute finali di Frozen.

How do you feel? That is the question
But I forget you don't expect an easy answer



Philadelphia, Marzo 2025 

How much is real? So much to question
An epidemic of the mannequins
Contaminating everything


La clinica del Mutiny è piccola, ma pulita, ed è uno dei pochi posti che sua sorella trova lontanamente piacevole. Lavinia è seduta sul lettino dedicato alle visite, le gambe troppo magre lasciate a dondolare nel vuoto e il rimasuglio di un lecca lecca stretto tra i denti bianchi, allineati in una mezzalna ordinata.

« Oggi sei proprio brutto. »

Noah solleva gli occhi dalla cartella clinica che sta compilando e la guarda: ha il muso ispido di barba non fatta e gli occhi rovinati dalla mancanza di sonno. Non ha chiuso occhio tutta la notte, e i postumi di una sbornia consumata solo per metà gli infettano il cervello come una febbre.

« Grazie, gentile come un cancro alle palle 'Lov. »
« Secondo me hai litigato di nuovo con Austin. »
« Secondo me sei una rompicoglioni. »

Lavinia ride e alza le spalle verso l'alto, mostrandogli i palmi. Ha polsi scarni in cui i tendini e ossa spiccano con tanta forza da sembrare in procinto di lacerare l'epidermide pallida, e vene azzurre che pulsano sotto uno strato di pelle troppo sottile. Non ricorda l'ultima volta che l'ha vista mangiare qualcosa che fosse diverso da quei chupa chups di merda, né l'ultima volta in cui ha pesato abbastanza per non essere definita pesantemente clinicamente come 'gravemente sottopeso'.

« Sono solo andato a ballare, niente drammi all'orizzonte. Sul serio. »
« Invece sì: mi ha scritto quella pazza della tua ex. »

La bocca di Noah si riempi di fiele. Serra le dita sulla bic nera che ha nel pugno e scava tra i lineamenti della sorella con un'occhiata ansiosa, divorata da un fastidio viscerale in cui, in realtà, è il panico a far da padrone.
Lavinia arriccia la bocca in un sorriso da ragazzina e lo guarda. Oggi è una giornata buona, forse è il litio, o forse è l'anticamera di una fase manicale. Noah scaccia quei pensieri a fatica, cercando di convincersi che forse, forse, oggi sua sorella sta bene e basta.

« 'Char dovrebbe aver capito che non ti deve rompere i coglioni. »
« Dice che le dispiace e che vuole che ti convinca a darle un'altra possibilità. »
« Che le hai risposto? »
« Niente. »
« Niente? »
« Qualcosa sul fatto che ti vedi con qualcuno e sei felice. »
« Ti sembra che abbia la faccia di uno felice? »
« Mi sembra che tu abbia la faccia di uno che si è messo di nuovo in testa di combattere contro i mulini a vento. »

Le parole di Lavinia gli si incastrano nel petto, rubandogli un assenso sfinito e privandolo della voglia di ribattere. Schiaccia la fronte tra le carte che riempiono la scrivania e scrolla le spalle, mostrando alla sorella il medio della mano destra.

« Vaffanculo. »

Il silenzio che si addensa tra loro è fragile, ed è Lavinia a spezzarlo per prima, scivolando giù dal lettino delle visite per aggirare la scrivania e gettarsi sulle spalle di Noah con un sospiro. Noah si lascia abbracciare in silenzio, percependone a malapena la stretta tra la barriera di abiti e stoffa che li divide; se la tira sulle gambe con un sospiro sconfitto, seppellendo il muso tra le ciocche castane che le incorniciano il viso di tratti spigolosi.

« Noah? »
« Mh? »
« Mi manca Ezra. »
« Anche a me, 'Lov. Tutti i giorni, tutto il giorno. »


Before you tell yourself
It's just a different scene
Remember it's just different from what you've seen


lunedì 27 marzo 2017

It's dangerous to fall in love (1)


Aprile 2019, Philadelphia 

Noah richiude il borsone militare con un movimento svelto, divorato dallo stesso nervosismo che gli squadra la mandibola e gonfia lo sguardo. Charlotte gli urla contro, i tratti dolciastri incendiati dal furore e gli occhi iniettati di un biasimo che rifugge, costretto come una bestia in gabbia, preferendo abbassare i propri sulla cerniera di metallo che gli trema tra le dita.
Il senso di colpa gli schiaccia la cassa toracica, avvelenando ogni boccone d'aria che si getta in petto.

« Mi avevi promesso che sarebbe stata l'ultima volta, me l'avevi promesso, avevi giurato! »
« Era l'unico modo per farti stare zitta. »

Il rumore della ceramica che esplode contro la parete gli contrae i dorsali, leccandone i nervi come una frusta incandescente. Il vaso ne ha mancato il profilo per pochi millimetri, schiantandosi alle sue spalle, tra la finestra ed la cornice di una fotografia ormai vecchia di anni; dietro il vetro lui ed Ezra sorridono con in mano due M16, la pelle bruciata dal sole e alle loro spalle le sagome divorate dai bombardamenti di Maskanah.
Noah si trincera dietro le palpebre e obbliga il proprio respiro ad un ritmo lento, misurato, con cui tenta di trattenere tra le dita le frange scivolose della propria pazienza. Charlotte sta piangendo, e ogni singhiozzo gli si incastra tra le costole come una lama, dilaniando muscoli, carne e ossa.

« Non partire. »

Charlotte si asciuga le lacrime in punta di dita e lo osserva, una supplica acquosa incisa nel fondo lucido delle pupille. Charlotte piange solo quando vuole qualcosa e non ha altro modo per ottenerlo, e Noah lo sa. L'ha visto capitare decine di volte, e altrettante l'ha vista stamparsi in faccia un sorriso strafottente non appena avuto quello che desiderava.
Ripetersi che sia solo l'ennesima farsa, però, non rende mendo difficile sollevare le spalle e scuotere la testa.

« È il mio lavoro, 'Char. L'hai sempre saputo. »
« Non lo sapevo invece, non sapevo un cazzo! Pensavo avresti smesso di cercare di farti ammazzare, che avresti smesso di lasciarmi qui come una stronza a chiedermi se creperai come un animale, se tornerai tutto intero o con l'ennesimo trauma del cazzo a farti scoppiare quella testa di cazzo che ti ritrovi. »

Noah le si avvicina trascinando la suola delle scarpe da ginnastica sul pavimento e lo fa senza nerbo, con lo sfinimento di chi conosce ogni curva di quella conversazione; le spalle di Charlotte tremano sotto la stretta delle sue dita, e la sua bocca contro la sua ha il sapore salato delle lacrime. Ne divora le labbra in un bacio lento, tatuando i polpastrelli contro la curva della sua mandibola con tanta forza da farle del male, lasciandole impronte livide sulla pelle pallida.
Il rumore del clackson di Ezra che riempie il vialetto lo costringe a ritrarsi, apparentemente impermeabile a quelle subbliche che gli fanno sprofondare il cuore nel petto. I bagagli li raccimola con la fretta vigliacca di chi non vede l'ora di andarsene, buttandoseli sulle spalle senza più guardare Charlotte.

« Sono incinta, pezzo di merda. »

Charlotte sfila dalla tasca la carta lucida di un'ecografia in 3d e la scaglia in direzione dell'altro, in una parabola debole che la fa fluttuare a mezz'aria prima che atterri silenziosamente sul pavimento.
C'è un ronzio stridente a riempire le orecchie di Noah, un rumore bianco che ha il retrogusto del panico e che gli invade la bocca con un sapore ferroso. Raccoglie l'ecografia tra le dita e deglutisce, alzando gli occhi carichi di livore su Charlotte con un sorriso affilato, crudo, che lascia intravedere scampoli della delusione feroce che chiude la gola rende difficile respirare.

« Non cambia niente, e lo sai. Come sai che dirmelo adesso è una delle tue solite carognate di merda. »

Noah si china un'ultima volta e lo fa solo per recuperare l'ecografia, lasciandosi alle spalle l'appartamento con uno schianto violento della porta d'ingresso.
Sei mesi. Dovrà aspettare almeno sei mesi prima di poter chiedere un permesso per tornare a casa, impacchettare le proprie cose e venire a patti con il rancore di Charlotte.

Marzo 2025, Philadelphia

Sono le due, forse le tre del mattino, e sul Walt Whitman Bridge il traffico si è prosciugato in un rigagnolo incerto composto da qualche sparuta coppia di automobili.
Noah fissa la superficie silenziosa del Delaware senza vederla realmente, più interessato a rincorrere i propri pensieri che i flutti che scivolano docilmente sotto lo scheletro metallico del ponte. I tratti dolciastri di Austin si mescolano a quelli di Charlotte, allacciati insieme dall'inadeguatezza bruciante che gli scalda il petto al pari del fumo di una sigaretta ormai consumata per più di metà.
È stanco e ha le membra divorate dallo spettro crudele dell'insonnia, la stessa che gli logora i nervi e gli impedisce di crollare in terra sfinito. Vorrebbe trovare la forza di raddrizzare le spalle e tornare a camminare, ma non ci riesce, schiacciato da un'infelicità vischiosa che strattona i ricordi verso un paio d'occhi castani che il tempo non è ancora riuscito a cancellare e che si mescolano, inevitabilmente, con un l'azzurro più tiepido di quelli di Austin. 
C'è un dolore sordo a pulsargli al centro del costato, vischioso e nauseante al pari di quel paio di macchine di sangue che ne imbrattano la canotta come infioriscenze purpuree. 

Fire meet gasoline
I'm burning alive
I can barely breathe
When you're here loving me

sabato 18 marzo 2017

Time after time

Josephine è una donna minuta, dalle ossa sottili e dagli occhi grandi, scuri, che nasconde timidamente dietro le lenti troppo spesse di un paio d'occhiali dalla montatura tartarugata. In piedi accanto al lavandino, le dita coperte da un paio di guanti di plastica di un azzurro intenso, gratta via gli avanzi di sugo dai piatti di ceramica sbeccata e canta, steccando meccanicamente le note della canzone pop trasmessa dalla radio.

« 'Mà, non ti si può sentire. »

Noah di sua madre non ha nulla, né i colori, né la stazza, e accanto a lui Josephine sembra poco più che una ragazzina; la guarda dal tavolino, il mento spigoloso incastrato nel palmo della mano destra e le spalle curve, tese su un testo di medicina che sfoglia distrattamente. Josephine ne ignora i rimbrotti e alza la voce in un gorgheggio finale che risuona sulle mattonelle lucide della cucina in un eco stridente, capace di far brontolare Dougall, il pittbull grigio, sdraiato tra le gambe del tavolo ed i piedi di Noah.

« Hai rotto il cazzo persino a lui, renditi conto. »
« È il tuo cane, ha il tuo carattere. Siete entrambi insopportabili. »

Josephine si gira e dedica a Noah un sorriso dolciastro, mesto, che non arriva a intiepidirne lo sguardo divorato da una patina di malinconia bruciante; si sistema gli occhiali sul naso e si chiude nelle spalle ossute, identiche a quelle di Lavinia. Noah fatica a sostenerne lo sguardo, e il senso di inadeguatezza che gli si addensa sulle spalle lo obbliga a distogliere gli occhi, puntandoli sul posto vuoto di fronte a sé: non c'è nessuno ad occupare la sedia di un verde stinto, in un'assenza feroce, nauseante, che riempie la stanza e sfibra il silenzio rotto solo dal ronzio indistinto di una nuova canzone pop.

« Dick dice che da lunedì potrebbe tornare a casa, se sei disposta a starle dietro. »

Sua madre non risponde. Torna ad aggiustarsi gli occhiali sul naso e sospira, in una difficoltà evidente che le si annida in corpo e le fa strattonare i guanti di plastica un dito alla volta, rilasciando nell'aria immobile degli schiocchi secchi, violenti come quelli di una frusta.

« Pensi sia una buona idea? »
« Penso abbia bisogno di un ambiente diverso, e che la clinica non sia la soluzione. Non a lungo termine. »

Josephine annuisce e abbassa lo sguardo, smarrita come una bambina e incapace di trattenere in bocca quella domanda dolente che, anno dopo anno, continua a gettare in pasto a Noah alla ricerca di un'assoluzione che non riesce a concedersi.

« Credi sia colpa mia? »
« No, 'Mà. Non dipende da te, non dipende da Paul. È genetica, ha avuto sfiga. Tutto qui. Non è colpa di nessuno. »

Josephine annuisce più volte, tentando di convincersene senza farlo davvero. Ci prova da anni, e la sua è una battaglia persa in partenza. Noah sospira, abbandona il tentativo di gettare a memoria la posologia dell'ennesimo farmaco e si alza in piedi, raggiungendo sua madre per chiuderla in un abbraccio violento, ruvido, offrendole silenziosamente il proprio torace in cui nascondersi. Josephine gli trema tra le braccia, in quello che Noah ha imparato a riconoscere da tempo come il preludio di un pianto violento.
Sua madre si aggrappa al suo costato e singhiozza, il corpo sottile scosso da singhiozzi che hanno su di lui la stessa violenza di una pugnalata in pieno petto. Noah chiude gli occhi e la lascia sfogare, seppellendo ogni pensiero mentre, dalla radio, la voce di Cyndi Lauper scivola a cullare il pianto di sua madre.

If you're lost you can look and you will find me
Time after time