Aprile 2019, Philadelphia
Noah richiude il borsone militare con un movimento svelto, divorato dallo stesso nervosismo che gli squadra la mandibola e gonfia lo sguardo. Charlotte gli urla contro, i tratti dolciastri incendiati dal furore e gli occhi iniettati di un biasimo che rifugge, costretto come una bestia in gabbia, preferendo abbassare i propri sulla cerniera di metallo che gli trema tra le dita.
Il senso di colpa gli schiaccia la cassa toracica, avvelenando ogni boccone d'aria che si getta in petto.
« Mi avevi promesso che sarebbe stata l'ultima volta, me l'avevi promesso, avevi giurato! »
« Era l'unico modo per farti stare zitta. »
Il rumore della ceramica che esplode contro la parete gli contrae i dorsali, leccandone i nervi come una frusta incandescente. Il vaso ne ha mancato il profilo per pochi millimetri, schiantandosi alle sue spalle, tra la finestra ed la cornice di una fotografia ormai vecchia di anni; dietro il vetro lui ed Ezra sorridono con in mano due M16, la pelle bruciata dal sole e alle loro spalle le sagome divorate dai bombardamenti di Maskanah.
Noah si trincera dietro le palpebre e obbliga il proprio respiro ad un ritmo lento, misurato, con cui tenta di trattenere tra le dita le frange scivolose della propria pazienza. Charlotte sta piangendo, e ogni singhiozzo gli si incastra tra le costole come una lama, dilaniando muscoli, carne e ossa.
« Non partire. »
Charlotte si asciuga le lacrime in punta di dita e lo osserva, una supplica acquosa incisa nel fondo lucido delle pupille. Charlotte piange solo quando vuole qualcosa e non ha altro modo per ottenerlo, e Noah lo sa. L'ha visto capitare decine di volte, e altrettante l'ha vista stamparsi in faccia un sorriso strafottente non appena avuto quello che desiderava.
Ripetersi che sia solo l'ennesima farsa, però, non rende mendo difficile sollevare le spalle e scuotere la testa.
« È il mio lavoro, 'Char. L'hai sempre saputo. »
« Non lo sapevo invece, non sapevo un cazzo! Pensavo avresti smesso di cercare di farti ammazzare, che avresti smesso di lasciarmi qui come una stronza a chiedermi se creperai come un animale, se tornerai tutto intero o con l'ennesimo trauma del cazzo a farti scoppiare quella testa di cazzo che ti ritrovi. »
Noah le si avvicina trascinando la suola delle scarpe da ginnastica sul pavimento e lo fa senza nerbo, con lo sfinimento di chi conosce ogni curva di quella conversazione; le spalle di Charlotte tremano sotto la stretta delle sue dita, e la sua bocca contro la sua ha il sapore salato delle lacrime. Ne divora le labbra in un bacio lento, tatuando i polpastrelli contro la curva della sua mandibola con tanta forza da farle del male, lasciandole impronte livide sulla pelle pallida.
Il rumore del clackson di Ezra che riempie il vialetto lo costringe a ritrarsi, apparentemente impermeabile a quelle subbliche che gli fanno sprofondare il cuore nel petto. I bagagli li raccimola con la fretta vigliacca di chi non vede l'ora di andarsene, buttandoseli sulle spalle senza più guardare Charlotte.
« Sono incinta, pezzo di merda. »
Charlotte sfila dalla tasca la carta lucida di un'ecografia in 3d e la scaglia in direzione dell'altro, in una parabola debole che la fa fluttuare a mezz'aria prima che atterri silenziosamente sul pavimento.
C'è un ronzio stridente a riempire le orecchie di Noah, un rumore bianco che ha il retrogusto del panico e che gli invade la bocca con un sapore ferroso. Raccoglie l'ecografia tra le dita e deglutisce, alzando gli occhi carichi di livore su Charlotte con un sorriso affilato, crudo, che lascia intravedere scampoli della delusione feroce che chiude la gola rende difficile respirare.
Il rumore del clackson di Ezra che riempie il vialetto lo costringe a ritrarsi, apparentemente impermeabile a quelle subbliche che gli fanno sprofondare il cuore nel petto. I bagagli li raccimola con la fretta vigliacca di chi non vede l'ora di andarsene, buttandoseli sulle spalle senza più guardare Charlotte.
« Sono incinta, pezzo di merda. »
Charlotte sfila dalla tasca la carta lucida di un'ecografia in 3d e la scaglia in direzione dell'altro, in una parabola debole che la fa fluttuare a mezz'aria prima che atterri silenziosamente sul pavimento.
C'è un ronzio stridente a riempire le orecchie di Noah, un rumore bianco che ha il retrogusto del panico e che gli invade la bocca con un sapore ferroso. Raccoglie l'ecografia tra le dita e deglutisce, alzando gli occhi carichi di livore su Charlotte con un sorriso affilato, crudo, che lascia intravedere scampoli della delusione feroce che chiude la gola rende difficile respirare.
« Non cambia niente, e lo sai. Come sai che dirmelo adesso è una delle tue solite carognate di merda. »
Noah si china un'ultima volta e lo fa solo per recuperare l'ecografia, lasciandosi alle spalle l'appartamento con uno schianto violento della porta d'ingresso.
Sei mesi. Dovrà aspettare almeno sei mesi prima di poter chiedere un permesso per tornare a casa, impacchettare le proprie cose e venire a patti con il rancore di Charlotte.
Sei mesi. Dovrà aspettare almeno sei mesi prima di poter chiedere un permesso per tornare a casa, impacchettare le proprie cose e venire a patti con il rancore di Charlotte.
Sono le due, forse le tre del mattino, e sul Walt Whitman Bridge il traffico si è prosciugato in un rigagnolo incerto composto da qualche sparuta coppia di automobili.
Noah fissa la superficie silenziosa del Delaware senza vederla realmente, più interessato a rincorrere i propri pensieri che i flutti che scivolano docilmente sotto lo scheletro metallico del ponte. I tratti dolciastri di Austin si mescolano a quelli di Charlotte, allacciati insieme dall'inadeguatezza bruciante che gli scalda il petto al pari del fumo di una sigaretta ormai consumata per più di metà.
È stanco e ha le membra divorate dallo spettro crudele dell'insonnia, la stessa che gli logora i nervi e gli impedisce di crollare in terra sfinito. Vorrebbe trovare la forza di raddrizzare le spalle e tornare a camminare, ma non ci riesce, schiacciato da un'infelicità vischiosa che strattona i ricordi verso un paio d'occhi castani che il tempo non è ancora riuscito a cancellare e che si mescolano, inevitabilmente, con un l'azzurro più tiepido di quelli di Austin.
C'è un dolore sordo a pulsargli al centro del costato, vischioso e nauseante al pari di quel paio di macchine di sangue che ne imbrattano la canotta come infioriscenze purpuree.
Fire meet gasoline
I'm burning alive
I can barely breathe
When you're here loving me
I'm burning alive
I can barely breathe
When you're here loving me