I never wanted to need someone
Yeah, I wanted to play tough
Thought I could do all just on my own
Yeah, I wanted to play tough
Thought I could do all just on my own
È un ambulatorio pubblico infilato in una delle vie fatiscenti della South quello in cui lavora Noah, strozzato tra una lavanderia a gettoni e un take away cinese. I corridoi sono saturi dell'odore stantio del disinfettante e della calca umana che, giornalmente, si assiepa sulle seggiole di plastica sbeccata in attesa del proprio turno.
Noah spalanca la porta dell'ambulatorio e si affaccia sulla sala d'attesa gremita; un uomo di quarant'anni con tra le dita scritta una prescrizione gli scivola accanto, chiudendo un colpo di tosse nel palmo, e una donna dall'aria patita si alza in piedi trascinando per mano un ragazzino di non più di dieci o dodici anni.
« Cos'ha fatto stavolta? »
Noah ha l'aria stravolta di chi non ha dormito abbastanza e gli occhi iniettati di sangue, ma riesce comunque a ritagliarsi in bocca un mezzo sorriso per quell'ammasso d'ossa e lividi dall'aria rognosa, ossuto e teso come una corda di violino. Fa cenno ad entrambi di accomodarsi, impastandosi in bocca una mezza bestemmia quando il cellulare inizia a squillare nella tasca del camice. Mastica un paio di scuse e butta uno sguardo al display dell'apparecchio, corrugando la fronte in una leccata di scetticismo pulsante.
« Cinque minuti e sono da voi. »
Scivola in corriodio prima di schiacciarsi il telefono contro l'orecchio, incurante del chiacchiericcio che riempie la sala d'attesa. La pazienza gli scivola tra le dita, intrappolata in quel bolo di fiato che si sforza di rendere comprensibile.
« Che c'è? »
« Austin è stato attaccato fuori casa da dei bastardi che lo hanno seguito fino all'appartamento, ieri notte. E' vivo, ma per un pelo. Ho pensato che fosse giusto che tu lo sapessi. »
Noah spalanca la porta dell'ambulatorio e si affaccia sulla sala d'attesa gremita; un uomo di quarant'anni con tra le dita scritta una prescrizione gli scivola accanto, chiudendo un colpo di tosse nel palmo, e una donna dall'aria patita si alza in piedi trascinando per mano un ragazzino di non più di dieci o dodici anni.
« Cos'ha fatto stavolta? »
Noah ha l'aria stravolta di chi non ha dormito abbastanza e gli occhi iniettati di sangue, ma riesce comunque a ritagliarsi in bocca un mezzo sorriso per quell'ammasso d'ossa e lividi dall'aria rognosa, ossuto e teso come una corda di violino. Fa cenno ad entrambi di accomodarsi, impastandosi in bocca una mezza bestemmia quando il cellulare inizia a squillare nella tasca del camice. Mastica un paio di scuse e butta uno sguardo al display dell'apparecchio, corrugando la fronte in una leccata di scetticismo pulsante.
« Cinque minuti e sono da voi. »
Scivola in corriodio prima di schiacciarsi il telefono contro l'orecchio, incurante del chiacchiericcio che riempie la sala d'attesa. La pazienza gli scivola tra le dita, intrappolata in quel bolo di fiato che si sforza di rendere comprensibile.
« Che c'è? »
« Austin è stato attaccato fuori casa da dei bastardi che lo hanno seguito fino all'appartamento, ieri notte. E' vivo, ma per un pelo. Ho pensato che fosse giusto che tu lo sapessi. »
La voce dell'altro capo del telefono è quella di Ross. Bassa, seria, un mormorio che gli si infila nel costato con la violenza di una spada incandescente. Non è dolore e non è panico quello che gli esplode al centro del petto con la forza di un'esplosione, ma un buco nero che risucchia ogni cosa, divorandone il cranio, i pensieri e il cuore come una leccata di veleno. Annaspa e il respiro che si incastra nei polmoni è affaticato, frenetico come i passi che divora in direzione dello stanzino. Si richiude la porta alle spalle con uno schianto di metallo e legno, tagliando fuori il chiacchiericcio del corridoio, i pazienti, persino il lavoro.
« Lo porto a casa appena si sveglia dall'anestesia. Ti mando un messaggio con l'indirizzo della casa nuova. Sono sicuro che gli farebbe piacere se passassi. »
Il resto delle frasi che pronuncia sono ringhi da cane rabbioso, affogati in un livore che gli esplode tra le dita non appena mette fine a quella telefonata. Insiste, minaccia, le scapole inchiodate contro la porta alle prorpie spalle e gli occhi persi sullo schedario che ha davanti a sé. Lo scheletro di metallo si accartoccia su se stesso in un cigolio straziante, ripiegandosi quasi fosse costretto sotto una pressa idraulica. Il cuore gli pulsa nel costato con troppa forza, accanendosi contro la trappola di muscoli e ossa quasi volesse squarciarne la carne e balzargli fuori dal petto.
« Ho la pelle dura. Sto attento. I promise. »
« Che cazzo pensi, che sia tanto stronzo da farmi ammazzare? Stai diventando una fighetta, Noah. »
« Ho la pelle dura. Sto attento. I promise. »
« Che cazzo pensi, che sia tanto stronzo da farmi ammazzare? Stai diventando una fighetta, Noah. »
Il ricordo che gli attraversa il cranio è lancinante come lo scricchiolio di ossa spezzate, doloroso al punto da rubargli il fiato. Cede, con i muscoli che diventano acqua mentre scivola contro il pavimento, gli occhi asciutti e le dita ancora strette attorno alla scocca di plastica del telefono cellulare. Noah sospira e flette il collo verso l'alto, riesumando il pacchetto di sigarette dalla tasca con un movimento indolente, vinto, lo stesso con cui si incastra una paglia tra le labbra e prende a sfogliare la rubrica del telefono.
But when the fear comes and I drift towards the ground
I am lucky that you're around
I am lucky that you're around